Alex Liddi e la sua conferenza di addio al baseball giocato: “L’Azzurro l’apice della mia carriera” 
 
Nella conferenza stampa del ritiro, il giocatore che ha segnato un’epoca per il movimento si è aperto: “Mi è piaciuto tutto, ho conosciuto Paesi, realtà, culture e devo ringraziare molte persone. Il baseball mi ha dato tanto, ora tocca a me aiutare i giovani”
I record sono fatti per essere battuti, ma ce n’è uno destinato a restare per sempre: quando sei stato il primo a fare o a ottenere qualcosa, nessuno te lo potrà mai togliere. Alex Liddi, primo atleta nato e cresciuto in Italia a giocare in Major League, per il movimento azzurro è stato questo e tanto altro e, al passo d’addio, ha fatto capire di essersi goduto ogni momento, ed è anche per questo che non sente peso il distacco: “La decisione di ritirarmi è stata scelta difficile, ho sentito che era giunto il momento e volevo passare più tempo con la famiglia”, ha detto nella conferenza stampa nella quale ha raccontato la sua carriera, il suo presente e il suo domani.
Introdotto dal presidente FIBS, Marco Mazzieri (“La prima volta che l’ho incontrato non aveva nemmeno 15 anni, ma già era convinto che sarebbe arrivato in Major League: ha rappresentato tanto per la mia carriera e la mia vita, ha segnato un’epoca del baseball, per lui ci sarà sempre spazio tra noi”), Liddi non si è risparmiato nel mettere a fuoco i ricordi: “Non dico che sapevo che prima o poi sarei arrivato in MLB, ma se mi guardo indietro credo che non mi sarei invece mai aspettato di giocare e vivere in così tanti Paesi diversi. Mi sono adattato a diversi modi di giocare, ho conosciuto diverse realtà, diverse culture, tanti luoghi, e tutti mi hanno migliorato”.
Italia, Stati Uniti, Messico, Taiwan: una lunga storia, ricca di momenti da copertine e altri meno noti, ma memorabili, per il ragazzo che ha realizzato il suo sogno americano. “Ricordo il mio primo anno in singolo A, in Minor League. Ero molto giovane, non avevo la patente, noi ragazzi abitavamo da soli e guadagnavamo 450 dollari ogni due settimane, che servivano per vivere e muoversi. Assieme a un compagno dominicano avevo comprato una macchina a 700 dollari, ma appunto eravamo senza patente e senza assicurazione… A casa dormivamo sui letti ad aria, ma ci divertivamo, facevamo quello che amavamo. Sento dire che sono sacrifici, ma per me non è così: i sacrifici li fai se qualcosa non ti piace; per me questo non è mai stato un sacrificio, né i lunghi viaggi, né gli spostamenti, né altro, perché mi è piaciuto tutto”.
Di quel tutto, tanto è noto. L’apice della carriera? “Giocare con la Nazionale. Sembra un discorso scontato o romantico, ma quando giochi e vivi tanti anni fuori dall’Italia, tornare per essere compagno in Azzurro di quelli che erano i tuoi amici e i tuoi compagni di quando avevi 10-12 anni, e con loro affrontare le grandi sfide tra nazionali, è un’esperienza incredibile. Il momento singolo più bello, invece, è stato il mio primo grande slam in MLB: in quel momento correvo le basi e mi sentivo di volare”.
Il momento dei saluti, si sa, è anche quello dei ringraziamenti e della memoria. “Tra i giocatori più noti, ricordo volentieri Felix Hernandez, che mi ha preso sotto la sua ala e mi ha protetto, spiegandomi come approcciare la MLB. Lui e Chone Figgins sono stati una parte importante della mia crescita in MLB. Voglio però oggi ringraziare pubblicamente tutte le persone che hanno fatto parte della mia crescita, tutti i miei compagni italiani e coloro che per me hanno fatto la differenza; penso a Marco Mazzieri, che dico sempre essere stato il mio papà nel baseball, perché mi ha insegnato quasi tutto, Bill Holmberg, Alessandro Maestri che è stato il mio compagno di una vita, Luca Panerati, Gianni Natale e Massimo Baldi, Deborah Scalabrelli; tutti hanno segnato la mia carriera, non mi hanno mai chiesto niente in cambio, sono stati i miei pilastri”.
Il futuro? “Oggi ho progetti personali e di famiglia, ma ho anche già cominciato a lavorare come consulente per un’agenzia che rappresenta giocatori di baseball. Mi piacerebbe rimanere nell’ambiente, non a livello professionistico ma lavorando con i ragazzi per avere impatto sui giocatori più giovani. Ho due-tre cose in ballo: il baseball è la mia vita, mi ha dato tanto, ora tocca a me aiutare i più giovani, lavorare per la loro crescita”.