di Marco Tarozzi
Accademico, pensatore libero, acuto e mai banale, bolognese che conta senza pretenderlo, affascinante crocevia di scienza e filosofia, convincente senza mai prevaricare. Sportivo vero, naturalmente: per trascorsi, passione e mentalità. Segni particolari? Virtussino nell’anima.
Ci è cresciuto, Giorgio Bonaga, con la canotta e la fede bianconera addosso. In quei favolosi anni Sessanta a metà dei quali approdò anche alla prima squadra.
“Stagione 1964/65. Ero “aggregato”, allora si diceva così. Giovane all’ultimo anno tra gli juniores, in prima squadra c’erano Giomo, Calebotta, Pellanera, Alesini, e poi Dado Lombardi che segnava a raffica. L’anno dopo misero dentro Giovanni Dondi Dall’Orologio, che era il figlio del presidente, e la strada si chiuse. Io ero cresciuto nel vivaio, mi ero fatto tutta la trafila fino alla categoria juniores. A quel punto successe che la squadra della GD, che si stava mettendo in luce, ricevette il sostegno di Isabella Seragnoli e sotto l’egida della casamadre Gira fu attrezzata per una Serie B di livello. Finii in quel gruppo, dove ricevetti i miei primi soldi, che mi facevano anche comodo. Fin lì avevo giocato per la gloria, cominciai a farlo anche per “vil danaro”. Roba da 300mila lire al mese, che per un ragazzo di vent’anni erano una bella sommetta”.
Venne fuori lì la famosa litanìa. “Bonaga è meglio di Raga”…
“Già, opera di Tullio e Maurizio Ferro. Noi della GD giocavamo alle 15, prima della Fortitudo. Iniziarono con quella cantilena che richiamava a Manuel Raga, il messicano di Varese, grandi doti atletiche e un’elevazione mai vista. Io molto discretamente cercavo di farli smettere. Perché era chiaro che Raga era molto, ma molto meglio di Bonaga”.
Perché, che giocatore era Bonaga?
“Diciamo di medio livello, ma con una mia popolarità. Ma soltanto perché ero piccolo… Ero molto veloce, questo sì. Avevo caratteristiche di dinamismo che per quei tempi erano inadatte. Insomma: quasi nessuno aveva un’accelerazione del genere, ma tanto poi dovevo fermarmi, perché era un basket lento. I lunghi, allora, dovevi aspettarli. A Calebotta dicevo sempre: Nino, ti chiamerò “controflusso”, ti trovi sempre in attacco quando difendiamo e in difesa quando attacchiamo. Ma la realtà è che lui era un grande lungo, per quell’epoca”.
Dopo, la Virtus è diventata la passione da coltivare.
“E’ rimasta, direi. Come la pallacanestro. Anche se adesso a palazzo ci vado poco, e c’è stato un lungo periodo in cui avevo proprio smesso. Lo ammetto, sono uno di quelli che pensano che il terreno che aveva generato Basket City si sia un po’ sgretolato sotto i nostri piedi, e non è colpa di questo o quello ma di un declino generalizzato che è passato anche da qui. Il basket europeo, e quello italiano in particolare, oggi hanno giocatori di livello medio rispetto a un tempo. Giocatori atleticamente fortissimi, intendiamoci, perché questo da noi è diventato uno sport superatletico ma molto meno tecnico. Ripeto, è un problema generale. Non voglio fare l’analista, o esaltare una nazione che non amo necessariamente in tutte le sue espressioni, ma è un fatto che negli Usa l’idea sana è che dovendo catturare il consenso, tutto il mondo che ruota intorno a una disciplina viaggia nella stessa direzione. Da noi una squadra come Siena, vincendo sette campionati di fila, al di là di quello che c’era dietro, ha fatto l’interesse di una sola società, non di un intero movimento, distruggendo piazze storiche”.
E’ un fatto, però, che adesso l’abbiamo rivista alla Unipol Arena.
“La passione non svanisce mai. E penso che Renato Villalta e quelli che lavorano con lui si stiano impegnando enormemente per dare una strada alla Virtus. Sì, mi sono riavvicinato a partire dalla partita in casa con Milano della passata stagione, tra l’altro vinta contro ogni pronostico. E anche quest’anno va così, ogni volta che vado a palazzo vedo la Virtus vincere. A Renato ho detto che mi dovrebbe dare un’indennità da talismano, ma lui dice che i bilanci della società non lo permettono. Me ne farò una ragione…”
Cosa le piace, di questa Virtus?
“Non pretendo che sia come quella degli anni di gloria. Erano altri tempi, e io sono stato fortunato a vedere da vicino il Paradiso. In questa vedo più continuità rispetto agli anni scorsi, senso del gruppo. Elementi incoraggianti per un tifoso. Ho visto vincere partite casalinghe con carattere, personalità. Poi, magari in trasferta si fatica perché lì per vincere devono funzionare simultaneamente molti fattori, nel basket di oggi se ti siedi per sei o sette minuti dal punto di vista dell’agonismo perdi il treno. Poi, anche se è vero che in generale gli italiani tendono ad avere un ruolo sempre più subalterno, qui c’è attenzione per loro, e un ragazzo come Fontecchio ha potenziale, è già in grado di prendere l’iniziativa e anzi per me dovrebbe farlo con sempre maggior frequenza”.
Ha idee su questo basket in difficoltà?
“Per affezionarsi a una squadra, occorrono tre condizioni. Che vinca tanto, che valorizzi i giovani, che resti la stessa per diversi anni. Oggi raramente se ne trovano almeno un paio insieme. Manca una formazione. Non solo per i giocatori, ma per dirigenti, arbitri, giornalisti, spettatori. Quella formazione per me si chiama scuola. E’ la scuola che lavora su centinaia di migliaia di ragazzi, e nei paesi in cui c’è una grande cultura sportiva ha la funzione di crescerli. Mi chiedo, perché le federazioni non fanno una battaglia affinché al posto di una incolore ora di ginnastica a scuola non si insegni davvero lo sport? L’istituto scolastico dovrebbe essere un “supermercato” che offre una base, le società sportive dovrebbero poi avere la possibilità di selezionare, non prendendosi a carico lo sviluppo di un gruppo di ragazzi per forza di cose più limitato nei numeri. In questo modo potrebbero sbocciare talenti veri, ma anche buoni arbitri, buoni dirigenti, buoni cronisti. Una questione di cultura sportiva”.
Virtus nel cuore. E il resto del basket?
“Faccio parte di un gruppo di fanatici degli Spurs. Io, mio fratello, un gruppo di amici che si buttano giù dal letto di notte per vedere e raccontarsi quella che per me è la migliore squadra del mondo. Attenzione: non sto parlando dei singoli, ma della squadra. Il gruppo”.
Il posto dove Ettore Messina ha scelto di allargare gli orizzonti della sua già enorme conoscenza.